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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Franco Punzi e Max Yasgur

di Pietro Andrea Annicelli

29/10/2019 Editoriale

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Franco Punzi e Max Yasgur

 

      Il ritorno in Puglia di Riccardo Bertoncelli, due settimane fa, insieme all'intervento di Franco Punzi a conclusione della presentazione del libro Le ragazze stanno bene a cui l'autore Davide Simeone, bontà sua, mi ha voluto come interlocutore, devono aver smosso certi miei circuiti neuronali. Incongruamente, ma in maniera suggestiva, nei miei pensieri queste situazioni hanno incrociato il cinquantennale del grande festival di Woodstock. Evento irripetibile fortunatamente passato sotto silenzio perché di quello spirito, attualmente, è rimasto ben poco.

     La Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock, il trionfo degli anni Sessanta per Philip Norman, biografo dei Beatles, si svolse negli Stati Uniti dal 15 al 18 agosto 1969 in un'area presso il paesino di Bethel nello stato di New York. Michael Lang, che la organizzò insieme a  John Roberts, Joel Rosenman, Artie Kornfeld, era in crisi perché rischiava di annullare il concerto che stava organizzando, previsto per cinquantamila persone. Aveva ceduto in prevendita poco meno di duecentomila biglietti, ma non aveva a disposizione un'area abbastanza grande. Lo salvò Max Yasgur, un agricoltore figlio d'immigrati ebrei russi che gli affittò il terreno necessario.

     Yasgur, di tendenza conservatrice, senza un particolare talento artistico e musicale, del tutto estraneo al rock e alla cultura hippie di cui Woodstock rappresentò l'apice e la celebrazione, accettò di ospitare l'enorme afflusso di giovani che vennero a vedere e a sentire alcuni dei più importanti artisti rock dell'epoca, tra cui Jimi Hendrix, perché credeva profondamente nella tradizione civile americana e nella libertà d'espressione che ne discendeva. Quando, contro ogni logica e aspettativa, in quell'area si radunarono centinaia di migliaia di giovani, l'agricoltore avrebbe potuto ostacolare in molti modi la manifestazione. O rivalersi in seguito. Fu invece sempre leale all'accordo preso anche al costo di scontrarsi con i vicini, che pure guadagnarono moltissimo vendendo vettovaglie ai partecipanti.

     La preoccupazione era che l'accesso incontrollato della moltitudine causasse disordini e violenze. Ma non accadde. David Crosby spiegò la situazione e lo stato d'animo: «Non c'era alcuna animosità, tutti cercarono di collaborare. Credo che fossimo tutti eccitati per il fatto di essere così numerosi. Pensavamo: "Riusciremo a cambiare tutto. Riusciremo a fermare la guerra". Beh, le cose non sono andate proprio così. Ma in quel momento eravamo pieni d'entusiasmo all'idea che i nostri valori stessero trionfando da qualche parte nel mondo».

     Il secondo giorno dell'evento, Yasgur salì sul palco e intrattenne la marea umana: «Sono un contadino. Non so parlare con venti persone contemporaneamente, figuriamoci con una folla come questa. Ma penso che voi abbiate dimostrato qualcosa al mondo, non solo alla città di Bethel, alla contea di Sullivan o allo stato di New York. Questo è il più grande gruppo di persone che si sia mai riunito in un unico posto. (...) La cosa importante che avete dimostrato al mondo è che mezzo milione di bambini, e vi chiamo bambini perché ho figli più grandi di voi, mezzo milione di giovani possono stare insieme per tre giorni di divertimento e musica e nient'altro. Che Dio vi benedica per questo!».

     Cagionevole di salute, Max Yasgur morì quattro anni dopo Woodstock mentre era in corso una causa con alcuni confinanti che si ritennero danneggiati dal concerto. A chi gli chiese se fosse pentito di averlo permesso, lui rispose: «Non mi sono mai pentito di niente».

     Franco Punzi direbbe forse la stessa cosa rispetto all'impresa d'aver prima garantito la continuità del Festival della Valle d'Itria, poi averlo reso un appuntamento importante e caratteristico nel panorama internazionale della lirica. Non fu facile per lui, quando quarant'anni fa Alessandro Caroli lasciò per andarsene in Australia, raccogliere l'imposizione di Paolo Grassi e farsi carico della fragile struttura organizzativa della manifestazione. Era si il sindaco di Martina, ragione per cui Grassi lo designò, ma non aveva né la passione per la lirica e la particolare inclinazione artistica di Caroli, né l'esperienza organizzativa e il potere politico dell'allora presidente della Rai che, di lì a poco, venne a mancare prematuramente, sguarnendo il Festival del suo più importante baluardo.

    Seppe, Punzi, cogliere l'appuntamento con la storia, quella personale e quella di Martina, con il buon senso e la forza d'animo dell'uomo comune che ha dalla sua la buona volontà e la speranza. Ricordo molto bene, quando cominciai a seguire il Consiglio comunale e a scrivere i primi articoli a metà degli anni Ottanta, le pressioni a cui l'allora sindaco veniva sottoposto in cambio dello sblocco dei fondi comunali per il Festival della Valle d'Itria. Max Yasgur si convinse ad affittare il suolo dove si svolse Woodstock quando si vide insultato da un cartello in cui s'invitava la gente a non comprare il suo latte perchè «ama gli hippie». Alla stessa maniera Punzi strinse i denti, e non mollò, quando si vide costretto, dai ricatti sui fondi, a dover garantire personalmente e attraverso i suoi amici per far svolgere la manifestazione. Una volta mi disse: «Per il Festival ho dovuto rinunciare a fare politica».

     Per fortuna, sua e di tutti, scelse bene. E il Festival, grazie al contributo di personalità riconosciute della musica come Rodolfo Celletti, Alberto Zedda, Sergio Segalini, Alberto Triola, Fabio Luisi, ma anche al lavoro, spesso volontario, di persone come Rino Carrieri, Roberto e Pasquale D'Arcangelo, fino a Giuseppina Punzi, amata moglie di Franco venuta a mancare nel marzo scorso, si è radicato, consolidato, fino ad aver realizzato, dopo quarantacinque edizioni, oltre cento opere, avendo vinto dieci Premi Abbiati.

     Eppure non è stato facile contrastare lo scetticismo e la malafede, spesso mossi da mediocrità e invidia. In passato non era raro assistere, in Consiglio comunale, agli sproloqui d'improvvisati tribuni della plebe convinti che si dovessero spendere i fondi destinati al Festival per riparare le buche delle strade e consimili amenità. Fino all'esibizionismo molesto di uno che una volta finse addirittura di volersi buttare dal Palazzo Ducale per prendersela con la manifestazione.

     Punzi e i suoi, come i giovani impresari di Woodstock, hanno saputo superare con coraggio e grazie al tempo, che è galantuomo, le insidie sul loro cammino. Lo hanno fatto sviluppando la dimensione internazionale finché, in tempi recenti, non è tornata d'attualità quella vision che era stata immaginata quando, nel 1975, il Festival fu fondato: renderlo il perno d'una dimensione economica sostenibile di Martina, città mediterranea ed europea, dove la cultura, il turismo e l'imprenditoria integrata al territorio potessero garantire un futuro certo.

     Oggi che, senza Giuseppina accanto, Franco Punzi vive, parole sue, «una stagione amara e brutta», una consolazione importante può venirgli dai talenti che Martina ha prodotto nella letteratura, nella musica, nel teatro oltre che nei mestieri e nelle professioni. Per questo raccolto, il Festival della Valle d'Itria è stato ed è uno dei principali terreni fertili. E Franco Punzi è tra quelli che, con fede operosa, si è maggiormente preso cura di questo terreno in previsione del suo raccolto, per cui oggi può scorgere qualcosa di sé e delle persone a lui care nei copiosi frutti.

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