Un ricordo di Paolo Aquaro
di Agostino Quero
09/08/2020 Editoriale
Credo di essere stato il più difficile caso fra quelli, tanti, che, nel corso della sua vita professionale, Paolo Aquaro ha affrontato nel far crescere i più giovani come giornalisti. L’ho conosciuto nel 1985, appena terminata la scuola superiore. Ero stato segnalato a quel giornalista che aveva bisogno di un corrispondente locale. Facevo la radio e si sarebbe trattato di passare alla carta stampata. Due linguaggi diversi.
Abbiamo lavorato tanto insieme e abbiamo raccontato molto del territorio. Ma, appunto, Paolo Aquaro era un giornalista della carta stampata impegnato nella realtà territoriale e con una predilezione per Martina Franca. Io ero fondamentalmente alla ricerca d’una occasione buona per un altro tipo di giornalismo: quello radiofonico. Due lingue diverse, nel campo dell'informazione.
Poi quell’occasione arrivò e per alcuni anni la colsi. Vidi il sincero sollievo di Paolo Aquaro perché avevo trovato la mia strada: quella delle radiocronache sportive e dei giornali radio. E ci confrontavamo, sempre parlando quei due linguaggi diversi.
Paolo Aquaro, nei miei riguardi, nutriva anche una forte preoccupazione, sempre espressa come tale e però per me anche il più bel complimento che mi si potesse fare: che non riuscissi a mantenermi i posti di lavoro perché «non sei uno yesman». E, paternamente, mi raccomandava di riuscire a tenermi questo o quell'incarico, fosse un ufficio stampa o una corrispondenza o altro.
Cosa ho apprezzato di Paolo: non ha dato, a me affamato di fare il giornalista, il pesce da mangiare, ovvero il posto. Mi ha insegnato a pescarlo, cioè ad avere a che fare con le notizie per raccontarle. La sua epoca è stata quella della sacralità laica dell'informazione: lo ha detto il giornale, è vero.
Adesso si troverebbe molto a malpartito, visto che una notizia non conveniente viene fatta passare per falsa. E i commentatori di tutto sono quelli che non capiscono niente e sentenziano come se fossero il padreterno. I social network hanno dato modo a tutti di scambiare il turpiloquio e l'offesa all'altro come un'espressione del pensiero. Poveri noi.
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Pietro Andrea Annicelli