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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Le canzoni e i dischi più belli del 2018

di Mark Aymondi

03/01/2019 Musicando

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Le canzoni e i dischi più belli del 2018

 

 

1) Come on to me Paul McCartney. Chi l'avrebbe mai detto che, cinquantacinque anni dopo She loves you, l'espressione yeah, yeah, yeah sarebbe tornata a infervorare un'irresistibile canzone dello stesso Paul? Il risultato è un grande flusso di ottimismo che la rende seconda, nel modello, solo all'inarrivabile Happy di Pharrel Williams, 2013. Divertentissimo il videoclip ufficiale in tre versioni: la migliore è quella di Freddie, l'addetto alla sicurezza. Maestosa la batteria.

 

2) What would he say? Paul Weller. «Che cosa direbbe? /Che non abbiamo pazienza adesso. /Siamo andati troppo oltre. /E ci vuole solo una scintilla /per iniziare una guerra». Una canzone di compianto per il padre, sul dolore e la perdita, su come le persone li affrontano. Un arrangiamento pregevole con echi di Bacharach in cui la sofferenza serve a denunciare e a capire. «In un mondo pieno di dolore /perché aggiungerlo? /Quando non resta nessuno da incolpare /devi affrontarlo».

 

3) 1974 David Crosby, Becca Stevens, Michelle Wills, Michael League. La data è quella del demo che l'autore aveva registrato canticchiando e suonando la chitarra acustica. Michael League ha voluto riprenderlo per riunire le voci del Crosby giovane e di quello senile in una canzone rifinita dall'intero quartetto. Ne scaturisce un senso di speranza e di consapevolezza sulla capacità di trasformazione dello spirito creativo. «Divertiti con la musica. /Lascia che si prenda cura di te». Un elisir per il resto della vita.

 

4) Hi hello Johnny Marr. Il chitarrista che fu degli Smiths, trent'anni dopo, fa la più bella canzone degli Smiths non cantata da Morrissey. È la conclusione istintiva e definitiva dopo il tuffo al cuore del primo ascolto. Seguito dal pensiero: in quale disco si trova? E perché Moz ha cambiato voce? Immaginatela cantata non dall'autore, che pure fa del suo meglio, ma da chi avrebbe dovuto: 1986, The queen is dead. Oppure 1987: Strangeways, here we come. Oppure ...

 

5) Loving you Jonathan Wilson featuring Laraaji. Inizia e s'innalza con i vocalizzi di Laraaji facendo venire in mente certe cose di Jean Luc Ponty. «Avevo il motivetto in testa: era una canzone che avevo scritto ispirato dall’intonazione di una parola che avevo sentito da John Lennon in una delle sue canzoni. Buttai giù una semplice linea di drum machine, con il piano e la voce che sentite oggi. Laraaji cantò su questa base. Dopo iniziò a suonare la sua cetra cosmica, ondulando il suono con il suo ipad, modellando così il brano».

 

6) Custodire Renzo Rubino. Partendo dalla sua esperienza di vita RR è stato capace, con candore e lirismo coraggiosi, di dare visibilità ai sentimenti dei figli di genitori divisi. La canzone sale piano, accorata. Poi si libra irresistibile con il suo carico di significati e di parole importanti: «Per una volta /parlatevi /e fatelo pianissimo». Curato ed elegante l'arrangiamento che sostiene una vocalità non eccezionale ma appassionata. Risoluta a suggellare una canzone che è un inatteso e prezioso manifesto d'amore.

 

7) Dirty computer Janelle Monàe featuring Brian Wilson. Due intensi minuti costituiscono la canzone di apertura dell'album omonimo. In un tripudio di cori il cui marchio di fabbrica, Brian Wilson, è insuperabile. Lo sporco computer è un'allegoria della natura umana con i suoi difetti e le sue imperfezioni. L'autrice amplia la riflessione, anche attraverso precisi rimandi sensuali su cui si staglia il fantasma di Prince, alla condizione delle minoranze e soprattutto delle donne. A cui spetta ricostruire il sogno americano.

 

8) Bassackwards Kurt Vile. Quasi dieci minuti di affascinante logorrea, con un riff ipnotico che si ripete come un mantra e risucchi psichedelici che rimandano al flusso di coscienza. È il secondo singolo dall'album Bottle it in. S'inoltra irresistibile attraverso una melodia con le chitarre in backmasking, cioè con messaggi nascosti e comprensibili solo se la canzone è riprodotta al contrario. Sullo sfondo, sfocati momenti di gioia vacanziera e contratta inquietudine dell'animo.

 

9) The signal and the noise Simple Minds. Tra il segnale e il rumore ci sono l'arte e la scienza della previsione. E il secondo singolo, degno delle cose migliori del gruppo, tratto dall'ultimo album Walk between worlds. Ritornello, ritmica, sonorità wave si rincorrono in una canzone che si conficca nella mente nonostante la voce di Jim Kerr, prossimo ai sessanta, non sia più quella d'una volta. Ma per un gruppo che ne ha quaranta e che, dopo anni di crisi, torna ai piani alti delle classifiche, va bene così.

 

10) Suspirium Thom Yorke. È una canzone di Suspiria, colonna sonora, composta dallo stesso Yorke, del rifacimento del film di Dario Argento da parte di Luca Guadagnino. Parte e ascende come un valzer leggiadro in cui la tensione tra il dolore e l'aspirazione alla beautitudine conducono alla bellezza. O alla salvezza. Pare che Yorke l'abbia abbozzata prima di conoscere Guadagnino. Ed è facile prenderla per quello che sostanzialmente si rivela: una bellissima canzone dei Radiohead.

* * *     

1) True meanings  Paul Weller. A sessant'anni PW realizza il suo album forse più bello. Non il migliore, che potrebbe essere, a scelta, Wild wood, 1994, o Stanley Road, 1995, ma il più ammaliante, positivo, elegante, commovente. Quattordici canzoni intense, a volte intime, in cui la chitarra acustica delinea piste percorse dalla voce rielaborando il flusso di coscienza. La gentilezza sobria, matura, il contributo di qualità dei notevoli collaboratori, la classicità compositiva, le sonorità orchestrali: un disco indimenticabile.

 

2) Here if you listen David Crosby, Becca Stevens, Michelle Wills, Michael League. Crosby è il signore del crepuscolo. Alla dodici corde con gli accordi in minore, il senso d'indugio, la voce sospesa. Classe 1941, l'antico hippie ha fatto quello che non aveva fatto mai. Quattro album negli ultimi cinque anni. Uno più bello dell'altro. Le armonie vocali di quest'ultimo rappresentano l'ideale prosecuzione di Lighthouse, 2016. Michael League, Becca Stevens e Michel Willis connettono il passato e il presente. Lo stato di grazia è anche un'illusione di eternità.

 

3) Egypt station Paul McCartney. Le canzoni dei Beatles piacciono perché fanno stare bene. Così disse Mark Hertsgaard ed è, a conti fatti, quello che ci si aspetta da ogni nuovo disco di Macca. In gioventù non sempre ci è riuscito. Nella terza età, non sbaglia un colpo. Anche le canzoni minori, come Back in Brazil, hanno quel nonsocosa che distingue un grande del rock dai tentativi d'imitazione. E ad ogni album il repertorio, sei decadi, si arricchisce di episodi degni di figurare accanto ai grandi classici.

 

4) Dead magic Anna von Hausswolff. Intransigente, catartica, abissale, l'opera della musicista svedese riceve vasta eco da questa affascinante apocalisse sperimentale dall'imprevedibile potenza. L'originalità, oltre che dalla grande voce, promana dall'organo a canne della Chiesa di Marmo di Copenhagen dove l'album è stato registrato. Il conflitto, anche spirituale, tra la luce e il buio, trova un senso e un malessere nell'idea d'un tempo privato di segreti e leggende, come ammonisce il poeta Walter Ljungquist nelle note dell'album.

 

5) Aviary Julia Holter. La ricerca non porta alla perfezione. E documentarla significa approssimare delle forme spesso incerte cercando di renderle accessibili. È il senso dell'ambiziosa «cacofonia della mente in un mondo liquefatto» raccontata dall'autrice in un disco antico e tecnologico, imprevedibile e lirico, barocco e radicale. Sperimentalismo e avanguardia convivono in soluzioni sonore non sempre di facile ascolto. Fino a labirinti d'intensa e straniante bellezza.

 

6) Hidden details Soft Machine. A cinquant'anni dal primo disco, ma con una formazione completamente diversa, la soffice macchina si è rimessa in cammino. John Etheridge, chitarra, Roy Babbington, basso, John Marshall, batteria, softs della metà degli anni Settanta, insieme all'eccellente fiatista Theo Travis, motore del gruppo, riprendono i fili della musica totale. Il risultato non è l'irraggiungibile Third, 1970, ma un felice album con squarci di magia sonora che rimodula la leggenda in storia.

 

7) Deafman glance Ryley Walker. Il quinto album, ruvido, lucido, discontinuo, racconta la volontà dell'autore di distaccarsi dalle facili classificazioni per affidarsi a una narrazione istintiva. Le fonti d'ispirazione, a cui troppo spesso di accenna per cercare di fissare un musicista giovane, sono ampiamente trasfigurate nell'inquietudine talvolta onirica d'una personalità che sa rendersi magnetica e chiedere attenzione per i suoi labirinti. Il disco meno accessibile è forse quello più autentico e personale.

 

8) Double negative Low. «It's not the end, it's just the end of hope». La sopravvivenza, o la persistenza, oltre la distruzione semantica. Avviene in maniera filtrata, distorta, senza orizzonte apparente. L'approccio spiazzante è a un universo sonoro devastato, destrutturato, disturbante. Gli improvvisi fiotti di lirismo confermano il senso precario del tutto. Il risultato è un disco estremo e tuttavia magnetico, mutevole nella prospettiva. L'effetto ultimo del sacrificio dal quale ricavare l'immaginario del futuro.

 

9) Rare birds Jonathan Wilson. Un disco che diventa sempre più luminoso, ascolto dopo ascolto, facendo emergere come JW sia un credibile erede della migliore tradizione pop e rock. La potente onda d'urto dal sole, come lo presenta un adesivo in copertina, si affida a soluzioni tanto accattivanti quanto tradizionali, ma non di meno belle e ricercate. C'è un sottile vento psichedelico che attraversa le melodie. La sensazione è una ricerca di armonia che non finisce nell'immobilità perfetta, ma raggiunge l'equilibrio provvisorio della serenità.

 

10) The great untold Scott Matthews. Il grande libro del folk inglese si arricchisce di questo album che stupisce e rincuora per l'eclettismo e il virtuosismo che riesce a contenere. C'è un autore in stato di grazia che crede in se stesso e nel valore della sua musica malgrado non ottenga il successo che merita. Ed è un peccato perchè queste canzoni sono il grande indicibile del nostro tempo: la musica come narrazione, come crescita, come cura dalle angosce della vita. Un fiume cristallino in cui rispecchiare la propria coscienza.

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