Riccardo Bertoncelli e “Sergeant Pepper’s”
di Redazione
10/06/2017 Musicando
Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band, l’album dei Beatles che nel 1967 rivoluzionò l’estetica del pop diventando un’opera d’arte tra le più influenti nel Novecento, è tornato al numero uno della classifica britannica in occasione dei cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione. Riccardo Bertoncelli, il decano della critica pop e rock in Italia, grande amico di Martina Franca e della Fondazione Paolo Grassi che ogni anno ospita delle sue lezioni (nella curiosa foto psichedelica di Marilena Lafornara è insieme a Rino Carrieri), aveva quindici anni quando il disco arrivò nei negozi.
Cosa significa questo anniversario?
«Non saprei: seguo questa cosa con un po’ di distacco. E non solo perché rappresenta un’altra epoca che ho vissuto, a suo tempo, con grande entusiasmo. Piuttosto mi ricordo il libro che scrissi dieci anni fa in occasione del quarantennale e una festa bellissima che ci fu a Roma. C’era un clima diverso, una voglia maggiore di divertirsi. Sarà che queste celebrazioni stanno diventando rituali e quindi un po’ stucchevoli, ma sento meno entusiasmo in giro per il mondo. È come una grande favola che ha ormai rivelato tutti i suoi segreti».
E il ritorno al numero uno nella classifica britannica?
«Semplicemente una chiamata alle armi degli appassionati. Ormai non è difficile arrivare al numero uno. Se c’è un artista con molto seguito, la gente si precipita a comprare il suo disco. Di Sergeant Pepper’s è stato molto pubblicizzato il remix e secondo me non è stata un’operazione straordinaria: ormai si è arrivati a trasfigurare questo disco fin troppe volte. In alcuni casi, in questo genere di lavori, si arriva a fare un vero e proprio stravolgimento rispetto al progetto originale. Mi sta bene un’operazione di restauro mentre invece sono polemico sulle alternate takes, su cui sospetto possano intervenire delle manipolazioni».
Per Sergeant Pepper’s che cosa consigli?
«Se uno ha il vecchio cd o, meglio ancora, un’edizione originale o una buona ristampa del vecchio lp, va benissimo».
Qual è la maniera corretta di procedere rispetto alle vecchie registrazioni di dischi storici?
«L’operazione giusta l’ha fatta la Columbia quando ha pubblicato diciotto cd con le registrazioni integrali di Blonde on blonde di Bob Dylan. È stato un lavoro molto onesto perché sono stati presi tutti i nastri che erano a disposizione e sono stati messi in ordine cronologico, per cui si possono verificare i passaggi dell’artista per arrivare alla versione definitiva delle canzoni. Per Sergeant Pepper’s è stata fatta una selezione e non vorrei che si fosse arrivato a creare degli artefatti, considerando che il figlio di George Martin che ha curato questa operazione è, diciamo così, abbastanza spericolato in questo genere di elaborazioni».
Quale credi che sia l’approccio dei più giovani a questi dischi?
«Sinceramente non so che cosa suoni alle loro orecchie. Certamente c’è la magia che emana da tutte le vecchie cose dei Beatles e i giovani sono molto interessati alla storia degli anni Sessanta. Sergeant Pepper’s è stato un disco che ha svoltato un’epoca e non è un’esagerazione. E guardando a tutto quello che è stato, si può vedere la musica dei Beatles trasformarsi in quella classica moderna che effettivamente è oggi. Però non so quanto fascino ci sia per loro, né se ne siano realmente interessati. Del resto non sono né i giovani né la gente della mia età a riportare Sergeant Pepper’s al numero uno in classifica. Sono i trentenni, i quarantenni, i cinquantenni che per qualche tempo si sono impossessati della storia del pop e del rock animando riviste per collezionisti. Lì c’è il riflesso d’una certa società inglese legata al mondo del classic rock che ne fa crescere la voglia, ed è un bene, però talvolta con esagerazioni passando per strade blu e sentieri in realtà mai percorsi, ed è un male. A volte mi scappa un sorriso, altre un’imprecazione».
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Pietro Andrea Annicelli