Luce sul caso Moro: Paolo Cucchiarelli
di Pietro Andrea Annicelli
09/05/2017 Oltre città
«Aldo Moro fu ucciso quando stava per essere riconsegnato, subito dopo o durante tale fase. Questo è l’elemento che giustifica tante palesi menzogne e contraddizioni nella versione costruita dallo Stato nel 1978-‘79, accolta e poi fatta propria nel tempo dai brigatisti». Lo dice Paolo Cucchiarelli, giornalista investigativo autore del dirompente libro inchiesta Morte di un Presidente, Ponte alle Grazie, pubblicato un anno fa.
Cucchiarelli, in Morte di un Presidente hai fornito un’analitica e documentata ricostruzione del caso Moro, nella fattispecie dei luoghi in cui fu prigioniero, della trattativa tra le Brigate Rosse e il Vaticano, della chiave di lettura delle sue lettere dalla prigionia, della dinamica del suo assassinio. Sei soddisfatto del riscontro ottenuto presso le istituzioni e l’opinione pubblica?
«No perché mi sarei aspettato una reazione molto più frontale e diretta. Ci sono stati però dei cambiamenti notevoli. Oggi sappiamo che l’ipotesi d’un giornalista ha dei riscontri oggettivi perché sono state trovate delle tracce di sparo da parte del Ris proprio dove la ricostruzione del perito Gianluca Bordin, contenuta nel mio libro, colloca lo sparatore e la traiettoria dei colpi esplosi. Inoltre la Commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro ha preso in considerazione un documento fondamentale come la perizia medico legale del 1978 che individua con sicurezza in tre punti dell’abitacolo della Renault 4 delle tracce di sangue risultato compatibile con quello del presidente della Democrazia Cristiana. Due dei tre cardini della ricostruzione dell’assassinio di Moro fatta nel libro sono stati finalmente messi in luce. E ci sono altri aspetti della perizia del Ris che s’incrociano con le due perizie balistica e medico legale contenute nel libro ed effettuate da Bordin e da Alberto Bellocco. Ad esempio, il fatto che i proiettili esplosi per uccidere Moro sarebbero dodici e non gli undici ritrovati».
Il cardine non ancora riscontrato dalla Commissione resta quindi l’identità dell’assassino di Aldo Moro, al quale però hai dato un nome e cognome: Giustino De Vuono.
«Sarebbe interessante se la Commissione appurasse che fine ha fatto De Vuono. Sembrerebbe che sia morto, ma anche che la Commissione nutra dei dubbi sul suo effettivo decesso. Aspettiamo per vedere se questa strada, indicata dal libro per la prima volta, sarà percorsa fino in fondo».
Sarebbe clamoroso se venisse dimostrato che la n’drangheta ha svolto un ruolo così decisivo nella vicenda Moro. Tra l’altro verrebbe definitivamente meno, qualora resistesse ancora, qualsiasi alone di romanticismo rivoluzionario che aleggiasse intorno alle Br.
«Non lo so. Nel senso che io ho puntato il faro su De Vuono che non è propriamente un n’dranghetista, ma un contiguo: allo stato attuale non risulterebbe affiliato, o almeno non sono stati trovati dei riscontri. De Vuono è un personaggio interessantissimo. Killer e criminale che si è politicizzato in carcere, ha svolto un ruolo dentro le Br. Non è quindi una questione di romanticismo ma di fatti. E io li racconto».
C’è poi la questione delle prigioni di Moro, che nel tuo libro risultano essere diverse da quelle delle quali si era parlato fino a un anno fa.
«La novità è che ne indico quattro con indirizzi precisi. Mi aspetto che prima della conclusione dei lavori della Commissione giunga qualche riscontro. Una sicurezza è che Moro ha camminato nell’area del triangolo fra Manziana, Bracciano e Trevignano. Il terriccio ritrovato sotto la suola delle sue scarpe conteneva infatti un minerale, la haüyna, che si trova solo in quella zona. Mi aspetto che siano indicati Palo Laziale, via Gradoli ma non necessariamente il covo brigatista scoperto il 18 aprile 1978, lo stabilimento balneare della Guardia di finanza a Bracciano, l’area compresa a Roma tra via San’Elena, via dei Falegnami, piazza Paganica».
Come valuti l’attività della Commissione?
«È partita molto bene. Però credo che adesso abbia un po’ paura di quello che ha trovato e capito. Perciò va sostenuta, stimolata e aiutata a concludere al meglio i suoi lavori affinché ci fornisca un quadro il più possibile chiaro dell’omicidio politico più importante nella storia della Repubblica. Non è importante che la Commissione si addentri in questioni marginali come il ruolo dei palestinesi, che è noto da decenni, o approfondisca oltremodo l’importanza logistica del Bar Olivetti nell’agguato di via Fani. Occorre invece che ci dica se Aldo Moro è stato tenuto in più prigioni, con quale logica, se è stato liberato dalle Br dopo un’intesa definita nella notte tra l’8 e il 9 maggio, perché nella fase di liberazione il presidente della Democrazia Cristiana è stato ucciso».
Cosa potrebbe ancora essere fatto?
«Sicuramente tutti quegli esami che possono consentire una lettura unitaria dei dati certi, validi e scientificamente riscontrati o ancora riscontrabili. Ad esempio, una ricostruzione dentro la Renault 4 dell’uccisione di Moro partendo dal sangue all’epoca presente nell’auto e dagli altri riscontri forniti con grande perizia dal Ris potrebbe far cadere molti luoghi comuni e certezze che obbligano a collocare l’uccisione solo e sempre nel portabagagli dell’auto. Oggi sappiamo, anche attraverso le perizie Bordin e Bellocco, che questa ricostruzione è quantomeno infondata scientificamente perché il sangue di Aldo Moro è sul tettuccio, sul vetro interno del finestrino posteriore di sinistra e nelle vaste chiazze di sangue e siero sparse dentro il portabagagli. La ricostruzione scientificamente più attendibile porta quindi a concludere che egli fu ucciso, in orario antecedente a quello stimato, mentre era seduto sul lato sinistro del sedile posteriore dietro al conducente, probabilmente convinto di essere liberato di lì a poco».
Tu oggi sei un protagonista, direi un capo scuola, del giornalismo investigativo italiano. Quanto costa, non solo professionalmente ma umanamente, psicologicamente, un’inchiesta come quella sulla morte di Moro?
«Costa moltissimo in termini di energie personali e di prezzo che si paga. Un prezzo fisico, psicologico e che comporta un certo isolamento. Però è importante che queste inchieste vadano avanti perché affermano un principio: il ruolo del giornalismo d’inchiesta può essere propulsivo e innovativo. Il giornalista investigativo può infatti arrivare là dove né gli storici, né i magistrati, né la politica possono, sanno o vogliono farlo».
Nella foto: Paolo Cucchiarelli davanti alla Renault 4 nella quale fu ucciso Aldo Moro (per gentile concessione dello stesso Paolo Cucchiarelli).
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Pietro Andrea Annicelli