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Biagio Marzo venticinque anni dopo: «Craxi? Gli italiani oggi apprezzano la sua cultura di governo»

di Pietro Andrea Annicelli

20/01/2025 Politica

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Biagio Marzo, salentino di Corsano, docente di Storia contemporanea e poi di Economia pubblica all’Università del Salento, giornalista e saggista, è stato deputato eletto nel Partito Socialista Italiano dal 1983 al 1994. Presidente della Commissione bicamerale per la ristrutturazione delle Partecipazioni statali, negli anni in cui Bettino Craxi fu segretario ha fatto parte della direzione nazionale e della segreteria del Psi, occupandosi per due volte dell'organizzazione e poi dirigendo la sezione Cooperazione, ceti medi e politica industriale. Attualmente, nominato da Riccardo Nencini, è esperto nella VII Commissione del Senato riguardante l’Istruzione e i Beni culturali. 

Sono venticinque anni che Bettino Craxi non c’è più. Sei uno di coloro che, nella diaspora socialista, non hai mai rinnegato la vicinanza a un politico il cui ricordo suscita opinioni a volte molto divergenti. Qual è, oggi, la percezione che avverti di Craxi?

«C’è senz’altro un ripensamento politico degli italiani rispetto alla damnatio memoriae che ha perseguitato per anni la sua figura. Davanti a una classe dirigente non a misura dei problemi del Paese, gli italiani si sono in gran parte ricreduti su Bettino Craxi e tanti fanno ammenda dell’odio riversato su di lui: è questo che avverto».   

E la classe politica?

«C’è una dicotomia nella classe politica. Il Centrodestra a tutti i costi tenta di cooptare Craxi nel suo pantheon per via della sua idea del patriottismo e del suo socialismo tricolore. La Sinistra, in modo sporadico, rivaluta la sua opera politica e governativa. Una parte, però, ancora è restia, impregnata com’è di cultura cattocomunista: il cattocomunismo alla Tonino Tatò». 

Approfondiamo questo aspetto.

«La prova provata del cattocomunismo è stata sia Tonino Tatò che riscoprì il socialfascismo definendo Bettino Craxi un “avventuriero” e “il capobanda del Psi”, sia Franco Rodano i cui attacchi erano puntati contro il “laicismo” dello stesso Psi. Molta di quella cultura si ritrova all’interno dell’attuale Partito Democratico, composto da comunisti, postcomunisti e democristiani sia dossettiani che morotei: persone lontane mille miglia, per cultura politica, dal riformismo e dalla socialdemocrazia europea». 

A proposito di riformismo: qualcuno ha visto in Matteo Renzi uno degli eredi di Craxi.

«Renzi è un ex democristiano la cui cultura politica non ha nulla da spartire con quella del riformismo socialdemocratico». 

C’è la ferocia d’un certo sistema politico che accomuna Craxi e Aldo Moro. Una realtà abitualmente incline al compromesso, avendo trattato su tutto e tutti, rifiuta di farlo in due occasioni: liberare Moro, consentire a Craxi di venirsi a curare in Italia al San Raffaele di Milano invece che in Tunisia, in condizioni di fortuna, grazie all’équipe medica dello stesso San Raffaele inviata da Silvio Berlusconi.

«Due grandi leader della Repubblica Italiana hanno pagato con la vita: Aldo Moro e Bettino Craxi. Il primo trovato in una Renault4 assassinato dalle Brigate Rosse, il secondo fatto morire in terra straniera con il veto del procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, di farlo venire in Italia da uomo libero per farsi curare. La battaglia di Craxi e dei socialisti affinché Aldo Moro fosse salvato e liberato fu tutta incentrata sulla cultura dell’umanesimo socialista e dell’anima umanitaria dei socialisti: vale più la vita di un uomo che lo Stato. All’incontrario, ci trovammo e ancora ci troviamo in un sistema autoritario». 

Cioè?

«Durante i cinquantacinque giorni di prigionia di Moro il mondo politico e culturale si divise tra il partito della fermezza e quello della trattativa. Vinse la fermezza propria di chi praticava la supremazia dello Stato sull’uomo, denunciata fortemente altresì da Leonardo Sciascia, componente della prima commissione parlamentare sul caso Moro. Perse il partito della trattativa di cui era leader Bettino Craxi: non a caso Moro, dal carcere delle Brigate Rosse, gli inviò una lettera personale chiedendo aiuto. Quella crisi dello Stato di diritto che si verificò in qui giorni proseguì, come un fiume carsico, per un decennio e più, per arrivare a emergere con Mani pulite. E dallo stato di diritto si passò allo stato etico». 

Perché avvenne questo?

«In una situazione di emergenza causata dal terrorismo negli anni Settanta fu approvata la legge Reale a cui si aggiunse, dopo la strage di Capaci, il cosiddetto decreto antimafia Scotti-Martelli, che inasprì l’articolo 41 bis della legge Gozzini del 1986. Di questa legislazione si avvalse il pool Mani Pulite per utilizzare la custodia cautelare come prassi per ottenere le confessioni utili al loro impianto accusatorio».  

Torniamo a uno dei lasciti del Psi negli anni della segreteria Craxi: la teorizzazione cosiddetta “del merito e del bisogno” che Claudio Martelli formulò nel 1982 alla conferenza di Rimini. Probabilmente è l’ultima elaborazione politica di valore della Sinistra italiana, non avendo senso, a mio parere, l’importazione della cosiddetta Terza via di Tony Blair.

«Il Psi di allora riuscì a rompere una certa cultura politica populista di provenienza comunista puntando strategicamente sul merito e il bisogno: fu un punto alto della cultura riformista socialista. All’epoca si trattò d’una impostazione culturale sconvolgente per la sinistra comunista perché scardinava l’egualitarismo di tipo populista in cui la redistribuzione dei redditi sacrifica la libertà attraverso la coercizione. Oggi rappresenta l’alternativa all’idea dell’uno che vale uno propria del Movimento 5 Stelle».

Cosa fu lo scontro nel referendum abrogativo del decreto che congelava tre punti della scala mobile per contenere l’inflazione, situazione in cui comunisti e missini votarono insieme, punto di svolta della cultura di governo di Bettino Craxi?

«Si trattò dell’antagonismo tra due visioni diverse: la cultura economica del Psi e quella confusa del Pci di quegli anni. Il taglio dei tre punti, che aveva avuto il consenso delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati tranne la Cgil che si era ritirata su pressione della componente comunista, aveva portato l’inflazione a due cifre di tipo sudamericano a una cifra, come avveniva nel resto del mondo occidentale. Il sistema Italia iniziò così a essere competitivo a livello globale. Il Pci non considerava un fatto indiscutibile: l’inflazione era una sorta di tassa iniqua non ai danni dei benestanti, ma dei lavoratori. Fu la ragione per cui perse».

 

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