Angelo Lucarella: «Per una buona sanità, via l’esclusiva alle Regioni»
di Pietro Andrea Annicelli
25/09/2024 Oltre città
Il servizio sanitario nazionale, istituito dal quarto Governo Andreotti su proposta del ministro della Sanità, la democristiana Tina Anselmi (1927-2016), con la legge n. 833 del 23 dicembre 1978, partiva dal principio guida della sanità come bene essenziale e universalmente fruibile. Il Governo nazionale aveva il compito di reperire annualmente le risorse. Le successive modifiche legislative sulla scia dell’ideologia liberista e d’una autonomia regionale talvolta malintesa l’hanno reso un sistema pubblico costituito sostanzialmente dai vari servizi sanitari regionali, dagli enti e dalle istituzioni di rilievo nazionale, dallo Stato. Ai primi posti nel mondo in termini di efficienza di spesa e di accesso alle cure pubbliche per i cittadini all’inizio del millennio, il servizio sanitario nazionale sta però perdendo competitività e risulta sotto finanziato: attualmente il 6,2% del prodotto interno europeo, inferiore rispetto a vent’anni fa e alla media europea dell’8%. Angelo Lucarella, saggista, opinionista e studioso del Diritto, per rivitalizzarlo ha depositato in Parlamento, a metà agosto, una petizione per una revisione costituzionale sulla salute e l'offerta sanitaria.
Quale ne è stato l’esito?
«È stata assegnata alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati per l’eventuale inizio dell’iter e il relativo esame nel merito. La lettura in aula parlamentare è avvenuta il 10 settembre scorso. Ora c’è da capire se ci saranno anche audizioni o meno e prese d’interesse da parte di gruppi parlamentari. Incontrerò il presidente della Commissione per discutere del progetto di legge nelle prossime settimane».
Che cosa si prefigge?
«Di cambiare la Costituzione perché modificata male nel 2001 e applicata peggio in seguito. In particolare la petizione, proposta dal gruppo Colturazione che ho avviato insieme a diverse persone nel 2021, vuole: introdurre il concetto di Salute come fondamento essenziale della Repubblica Italiana insieme al Lavoro (art. 1); abbandonare i livelli essenziali delle prestazioni per i diritti sociali, in cui c’è la materia della sanità, sposando un nuovo modello, cioè i livelli crescenti e omogeni da garantire su tutto il territorio italiano (art. 117); estromettere dalla materia sanitaria l’autonomia differenziata (art. 116); introdurre la deroga al divieto di indebitamento per le Regioni e gli enti locali in materia sanitaria nonché in relazione ai contratti da prestito: ciò al fine di assicurare i livelli crescenti e omogenei con contestuale introduzione del principio di reperimento e allocazione delle risorse disponibili (art. 119); introdurre il divieto di limitazione della prestazione e della cura sanitaria in base alla provenienza e alla capacità reddituale della persona (art. 120); ampliare i poteri sostitutivi del Governo allorquando le Regioni e gli enti locali non rispettino norme sovranazionali in materia sanitaria (art. 120); stabilire una priorità di trattazione delle questioni costituzionali in materia sanitaria davanti alla Consulta (art. 127)».
Il servizio sanitario nazionale è una delle grandi conquiste della Repubblica. Non c’è il rischio che le buone intenzioni, in mano a una classe politica mediocre, finiscano per scardinare il sistema?
«È così da quando alle Regioni è stata data mano libera in materia sanitaria. Il fatto che ci siano eccellenze a livello europeo e mondiale non significa che il sistema sanitario nazionale abbia una effettiva offerta di prestazioni di livello omogeneo diffuse su tutto il territorio italiano. E lo Stato centrale non può fare alcunché su questo se non stanziare risorse per le Regioni e fare leggi con principi fondamentali perché la competenza materiale spetta ai territori in base al principio del regionalismo legislativo concorrente. Oggi viviamo un paradosso che cerco di spiegare da anni, ormai: la legge sul servizio sanitario universale n. 833/1978 stabilisce all’articolo 2 che il servizio sanitario nazionale stesso viene istituito per il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del Paese. È evidente, però, che tale norma è stata tradita: basti vedere i dati Agenas 2023 che confermano come il Nord batta il Sud 6 a 0, come direbbero nel tennis. Il paradosso, quindi, è duplice. Da una parte la legge del 1978 è diventata inconciliabile con il regionalismo legislativo in materia sanitaria, essendo delle Regioni la competenza in materia fin dal 2001. Dall’altra, il servizio sanitario nazionale è diventato solo un miraggio giuridico e una pantomima politica, dal momento che le classi politiche avvicendatesi nel tempo non hanno fatto che dare spazio alla differenziazione sanitaria piuttosto che all’universalismo vero e proprio».
La regionalizzazione della sanità non è sembrata una grande idea per diverse ragioni: dalle sperequazioni al clientelismo, dai dislivelli essenziali di assistenza all’inadeguatezza burocratica: e così via. Come se ne esce secondo la tua proposta?
«Cambiare la Costituzione è essenziale per riformare tutta la normazione in materia sanitaria e applicare una nuova visione delle cose nelle leggi consequenziali. Per eliminare la politicizzazione della sanità, e quindi l’eventuale clientelismo, occorre, ad esempio, il sorteggio dei dirigenti: un listone nazionale di professionisti competenti che, in base ad una estrazione al buio, vengano assegnati al distretto sanitario territoriale. La riflessione sorge spontanea: tutti sono d’accordo, tranne i super autonomisti, che il Titolo V della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3/2001, non funziona in materia sanitaria. Allora o lo si cambia, o le cose andranno peggio perché la legge nel 1978 è di fatto impraticabile e, quindi, una sorta di norma ormai incostituzionale per vicende sopraggiunte».
Come s’inserisce l’intero discorso rispetto all’autonomia differenziata tanto cara alla Lega?
«L’autonomia differenziata avrebbe una sua logica per materie diverse dalla tutela della salute. Il disegno di legge Calderoli, diventato legge, non toglie alcunché a ciò che è previsto dalla Costituzione in materia di maggiore autonomia dei territori: basti vedere l’articolo 116 della Costituzione stessa. Di contro, il referendum abrogativo, per giunta, non risolverebbe alcun problema pratico nel mondo sanitario, dal momento che cancellerebbe solamente una norma di attuazione costituzionale. La vera partita discutibile è come garantire i livelli essenziali delle prestazioni. Ma il referendum non cambierebbe alcunché. Se proprio vogliamo cambiare le cose per come stanno, intanto si cambi la Costituzione con uno sforzo in più: pensare a un sistema universalistico sanitario a livello europeo. Sarebbe un’altra storia e un passo in avanti nel processo d’integrazione comunitaria».
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Pietro Andrea Annicelli