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Franco Chiarello: «Cassano? Lavorava sulle contraddizioni della modernità»

di Pietro Andrea Annicelli

05/03/2021 Cultura

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Franco Chiarello: «Cassano? Lavorava sulle contraddizioni della modernità»

 

Il 23 febbraio se n'è andato Franco Cassano, da tempo malato. In questa intervista di Pietro Andrea Annicelli, pubblicata da Noi Notizie, il sociologo Franco Chiarello, collega e amico di Cassano, ne ricorda la vita e l'opera.

«Conobbi Franco quando arrivai a Bari da giovane ricercatore, all’epoca si diceva contrattista, a ventotto anni nel 1975: quarantasei anni fa. Si stava costituendo una piccola comunità sociologica in senso accademico. Franco era assistente ordinario di Filosofia del diritto. C’erano poi Eligio Resta e Giovanni Bechelloni, il primo sociologo strutturato. E Giandomenico Amendola, però a Lettere. Scienze politiche era corso di laurea di Giurisprudenza». Franco Chiarello, sociologo dei processi economici e del lavoro, è stato amico e compagno di facoltà di Franco Cassano. Più e meglio di altri ne ha compreso lo sforzo intellettuale e la natura profonda.

Chi era Franco Cassano?

«Aveva tre aspetti che hanno affascinato tutti fin da giovane. Il primo era la simpatia innata dovuta anche alla sua rotondità, al suo viso paffuto e solare, gioviale, che metteva tutti a loro agio, in particolare gli studenti. Altrettanto la sua maniera di vestire non convenzionale: non ricordo d’averlo mai visto in cravatta. Cassano era un amicone e questa affabilità, insieme all’immagine paciosa, entrava in sintonia con gli studenti che lo adoravano. Lui, non si sarebbe detto, in gioventù era stato uno sportivo: aveva praticato la pallanuoto. Perciò s’interessava di sport e, tra l’altro, gareggiavamo a chi ricordava meglio le formazioni storiche delle vecchie squadre di calcio. All’inizio degli anni Ottanta Franco s’innamorò di Battiato, soprattutto di “Centro di gravità permanente”: io rispondevo con Pino Daniele e “‘Na tazzulella ‘e café”. Questo suo spaziare dalle cose importanti a quelle minute era molto utile a instaurare un rapporto di fiducia con gli studenti. Adesso sembra niente, ma all’epoca confliggeva con l’atteggiamento accademico a cui gli studenti erano abituati. Il secondo aspetto di Franco, non dico niente di originale, era la sua intelligenza. Un’intelligenza che colpiva perché, lungi dall’essere supponente, non mirava a sorprendere, sconcertare. Non si abbatteva come un temporale nel mare. Anzi, ti accarezzava come una brezza. Catturava tutti coloro che gli erano intorno perché i suoi concetti, le sue idee, pure molto complesse, ti accarezzavano l’anima. E come parlava, Franco scriveva. Onofrio Romano dice che può essere stata un’arma a doppio taglio e in parte sono d’accordo perché una scrittura così seduttiva finiva per essere considerata prima per la bellezza che per i contenuti. La chiarezza espressiva senza mai essere retorico, pur proponendo pensieri complessi e concetti raffinatissimi, Franco se l’è portata dietro tutta la vita. Il terzo aspetto era il suo essere uno studioso di confine proprio per la sua formazione filosofica prima che sociologica. Il tema del confine, della frontiera, è diventato tipico della sua riflessione. Questo situarsi ai bordi gli faceva assumere sempre un punto di vista di vista originale. Era in grado di collocarsi in un’altra posizione e guardare da un punto di vista diverso. È una qualità che ho sempre apprezzato». 

Ritorniamo alla vostra comunità di sociologi a Bari nella seconda metà degli anni Settanta.

«Eravamo tanto pochi e così marginali nell’università barese che vivevamo molto insieme non solo perché in via di costituzione come comunità sociologica, ma proprio per la marginalità del nostro ruolo. Quando ci siamo conosciuti, Franco aveva già scritto due lavori: “Autocritica della sociologia contemporanea: Weber, Mills, Habermas” nel 1971 e “Marxismo e filosofia” nel ‘73. Entrambi erano stati pubblicati da De Donato, la casa editrice ufficiale della “école barisienne” di cui lui era l’esponente più giovane. Erano i prodromi del transito dalla sua originaria formazione filosofica alla sociologia. Del nostro gruppo, l’unico laureato in sociologia ero io. Bechelloni andò via dopo appena un anno e arrivò un personaggio fondamentale per la nostra formazione: Franco Rositi, divenuto ordinario. Egli ci fece diventare non solo dei veri sociologi, ma costituì un cenacolo molto più allargato a cui partecipavano altri docenti come Francesco Fistetti e Augusto Ponzio. Rositi ebbe quindi il merito non solo di costituire a Bari una vera comunità sociologica, ma d’inserirla nell’orbita delle ricerche sociologiche nazionali. Franco aveva con lui un rapporto molto stretto. Quando Rositi andò via, dopo quattro anni, eravamo diventati non solo dei sociologi accademici per studi e formazione, ma perché inseriti nella comunità sociologica nazionale». 

Cassano come sviluppò la sua attività di ricerca?

«Dopo l’autocritica della sociologia contemporanea, scrisse ancora per De Donato due lavori nel 1977 e nel ’79: “Hegel e Weber: egemonia e legittimazione” con Remo Bodei e “Il teorema democristiano” sulla mediazione della Democrazia Cristiana nella società e nel sistema politico italiano. In quegli anni Franco cominciò un percorso di ricerca e di riflessione che secondo me ruotava attorno all’idea, allo studio e alla critica della modernizzazione infinita. Questo accomunava i suoi studi a quelli che facevo dal versante della sociologia economica. Discutevamo molto della modernizzazione in quanto processo che avrebbe condotto alla modernità di tutti i Paesi del mondo, e se l’Occidente avesse il compito di portare la modernità in quei Paesi. Franco, dal suo punto di vista e con i suoi strumenti, criticò l’analisi che i problemi del sottosviluppo fossero una conseguenza del fatto che quei Paesi non erano ancora sviluppati, e che per esserlo dovessero adottare dei modelli culturali simili a quelli dell’Occidente e degli Stati Uniti. La critica alla modernizzazione infinita è stata il filo conduttore delle sue ricerche. Da “Approssimazione” a “Partita doppia”, pubblicati dal Mulino nel 1989 e nel 1993, fino a “Il pensiero meridiano”, il suo primo lavoro per Laterza nel ’96, Franco ha coltivato e dispiegato costantemente l’idea che il Mezzogiorno, il Mediterraneo e il sud del mondo non dovessero più guardare a sé stessi con gli occhi dei vincitori. Il tema era il rapporto tra la tradizione e la modernità. Da lì Franco comincia a maturare l’idea, che poi esprimerà nei suoi lavori successivi, che non è il sottosviluppo a dover essere pensato alla luce dello sviluppo, non è l’arretratezza a dover essere pensata alla luce della modernità, ma che la modernità può essere pensata alla luce dell’arretratezza: il nord pensato dal sud. In Franco sono molto presenti delle dicotomie. In particolare, quella tra la terra e l’oceano. La terra può portare al dispotismo, l’oceano il nichilismo. In mezzo c’è il mare, in particolare il Mediterraneo, dove solido e liquido, terra e mare, possono coniugarsi invece che combattersi. Il mare, nella celebre definizione di Braudel, è una pianura liquida che unisce le sponde geografiche: è un elemento di separazione, ma anche di comunione e di rapporto. Da qui la riflessione con la frontiera che non è ciò che divide, ma anche ciò che unisce perché permette di osservare l’altro. L’altra importante dicotomia su cui lavorò Franco è il sé e l’altro, quindi Baumann, Levinas: come può essere visto il mondo adottando il punto di vista dell’altro». 

Parliamo di quegli anni.

«Nel 1991 a Bari arrivò la “Vlora”, la nave degli albanesi. Altrettanto avvenne a Brindisi con un’altra nave, sebbene la cosa sia stata molto meno pubblicizzata. Scattarono solidarietà e accoglienza, ma anche un’inevitabile tensione che portò, tra l’altro, a una polemica tra Francesco Cossiga, all’epoca Presidente della Repubblica, e il sindaco di Bari, Enrico Dalfino. Fu una chiara dicotomia tra il centro e le periferie, un elemento importante della nostra analisi di allora. Sono categorie che Franco, invece che mantenere antitetiche com’era nella tradizione delle scienze sociali, cercava di ricongiungere, intrecciare, in qualche modo invertire. Lui è visto come uno studioso del post moderno ma era molto critico sulla post modernità. La riteneva, sostanzialmente, un grande racconto della modernità rispetto alla quale non c’era una grande differenza perché entrambe, modernità e post modernità, risultavano delle costruzioni assolute della stessa natura».

L'intervista completa continua su Noi Notizie. 

 

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