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SanPa e noi

di Pietro Andrea Annicelli

18/01/2021 Editoriale

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SanPa e noi

 

Ho incontrato Vincenzo Muccioli (1934-1995) alla fine degli anni Ottanta quando venne a Martina Franca, credo per una conferenza che non seguii. Lo intervistai, dopo aver ricevuto telefonicamente la sua disponibilità, nella hall del Park Hotel San Michele. Mi fece una pessima impressione. Si presentò con un atteggiamento autoritario e paternalista, dandomi ostentatamente del tu per marcare la differenza di età: avevo vent'anni o poco più. Feci finta di nulla e gli replicai dandogli anche io del tu.

(Divagazione necessaria. Può capitare, per età, abitudini e cultura, che persone anziane o di mezza età diano del tu ai giovani e ai giovanissimi aspettandosi il lei, talvolta ricevendolo come atto di buona educazione, sebbene desueto anche in maniera inopportuna. Mi è successo, talvolta, e l'ho accettato con naturalezza come un'abitudine funzionale alla migliore comunicazione, non come una diminutio. Diverso è quando qualcuno vuol servirsi di questa differenza per esercitare un potere autoritario. Se avviene, quel qualcuno va stroncato. Subito).

Muccioli si mise sulla difensiva sebbene non avessi un atteggiamento aggressivo né, per quello che ricordi, gli avessi rivolto domande particolarmente insidiose. Non fu una grande intervista. Alla fine, rispose al mio saluto con fare sospettoso.

Non ho visto SanPa, la ricostruzione su Netflix della storia di San Patrignano. La ricordo abbastanza bene insieme alle vicende e al contesto dell’epoca. Richiama la mia attenzione un’affermazione di Carlo Gabardini, che ne è l’autore con Paolo Bernardelli (il soggetto è di Gianluca Neri, la regia di Cosima Spender), intervistato da Francesco Canino per il Fatto Quotidiano: «È una serie su tutti noi. Su come decidiamo di risolvere i problemi che travolgono la società e su come ci confrontiamo con l’assenza dello Stato. È una storia solo apparentemente provinciale che in realtà ha una portata gigantesca perché parla di valori universali».

Altrettanto interessanti come opportunità di riflessione, lo dico per convinzione e non per par condicio, delle dichiarazioni di Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo, intervistato da Fabio Cutri per il Corriere della Sera: «Certo che la violenza c’era a San Patrignano, stiamo parlando di una guerra. Una guerra che però è stata vinta con la forza dell’amore». Inoltre: «Quando parliamo di San Patrignano non parliamo della Caritas, con tutto il rispetto. Parliamo di un percorso drammatico di accoglienza di giovani, i tossicodipendenti degli anni ‘80, che distruggevano le loro famiglie ed erano abbandonati dallo Stato».

Credo che in Italia ci sia la pessima abitudine binaria, alimentata da media inadeguati e responsabili di questa tendenza, di sviluppare dibattiti inutili per condannare o assolvere qualcuno invece che per ricevere informazioni ed eventualmente farsi un’opinione senza riserve mentali. Nel caso di Muccioli, mi sembra abbastanza indegno. Non ho mai pensato a lui come a un santo o a un benefattore, né a un delinquente o a un aguzzino. L'ho sempre visto come un uomo imperfetto, come tutti, che, con molti limiti, ha cercato di fare qualcosa perché, per usare la metafora d'una triste immagine dell'epoca, ragazzi fragili non morissero soli sulle panchine dei giardini pubblici. Sbagliando? Anche. Ma dubito che chi giudica oggi in maniera sommaria abbia anche solo una vaga idea di che cosa potesse o possa significare, per famiglie comuni, avere a che fare con un figlio tossicodipendente.

L'eroina, introdotta in maniera massiccia in Italia come sistema di controllo sociale, dalla metà degli anni Settanta è stata una piaga devastante che ha colpito i più fragili. La differenza prevedibile era che i figli dei ricchi potevano pagarsi costose cliniche all'estero dove curarsi, i ragazzi comuni e i proletari, con le loro famiglie, erano lasciati a sé stessi da uno Stato inadeguato, moralista, per certi versi infame.

Muccioli ha cercato di accogliere persone, ragazzi, che la società del tempo rifiutava. Forse ha commesso l'errore di lasciare che San Patrignano s'ingrandisse a dismisura. Significativa, sempre nella logica laica d’un approccio aperto, è la testimonianza di Fabio Cantelli, ex ospite e portavoce di San Patrignano tra gli anni Ottanta e i Novanta, intervistato da Angela Gennaro su Open: «Finché la comunità rientrò in certe dimensioni, fino alle 3-400 persone lui, con uno sforzo sovraumano, dedicava anima e corpo e ci seguiva personalmente. Poi, quando ci fu l’esplosione demografica degli ospiti a metà degli anni ’80, la situazione gli sfuggì di controllo. Sopperì alla logica della relazione con quella del controllo, ed è lì che iniziano i guai». 

Non credo, in proposito, che ci fossero dei precedenti per un'esperienza che, comunque la si voglia considerare, è andata avanti come un lavoro in progressione, compresa l’assistenza a malati di Aids rifiutati dagli ospedali, rispetto alle dimensioni strazianti del fenomeno delle tossicodipendenze. Le comunità coeve o che sono seguite hanno comunque avuto SanPa, nel bene e nel male, come sistema di riferimento. Lo stesso Cantelli, a Selvaggia Lucarelli che per il Fatto Quotidiano gli chiede se si sarebbe salvato senza San Patrignano, dice schiettamente: «So che i cultori del diritto inorridiranno, ma se non avessi trovato una persona (Muccioli, nda) col coraggio di commettere un sequestro (lo stesso Cantelli, riportato nella comunità dopo esserne fuggito, nda), non sarei vivo». Alla fine Muccioli, di San Patrignano, c'è morto prematuramente. Non mi sembra la fine d'uno speculatore. O d’un sadico.

Parlarne oggi in maniera semplicistica, come se tutto fosse riconducibile a un'assoluzione o a una condanna, da parte di chi poi, significa non voler fare il necessario per capire le ragioni e le cause del dramma delle tossicodipendenze. Va da sé che non voler capire è una maniera per non fare neppure lo sforzo culturale di ragionare su come poter alleviare e tentare di risolvere, in termini individuali e sociali, la realtà della droga e le sue conseguenze. Vale il colonnello Kurtz in Apocalypse now: «È il voler giudicare che ci sconfigge».

Intanto altre realtà per il recupero dalle tossicodipendenze sono sorte nel tempo tra cui, nel nostro territorio, la Comunità Emmanuel. Lo spontaneismo non esiste più e dal 2013 è stato stilato il Manifesto italiano per la cura delle tossicodipendenze: il modello di cura misto, sottoscritto da tecnici dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria. Sono cambiati i paradigmi culturali. Al senso di tragedia e agli atteggiamenti ideologici colpevolizzanti si è sostituito il principio del recupero fisico e sociale dei drogati.

Oggi è normale ritenere che il tossicodipendente sia un malato da curare. All’epoca, invece, agiva un meccanismo psicosociale di colpevolizzazione che emarginava ed era un aspetto sostanziale e dirimente del fenomeno delle tossicomanie. Ciò che attualmente inquieta, semmai, è l’integrazione e la mimetizzazione sociale dei drogati: quasi che la tossicomania sia diventata una condizione accettata o quanto meno normalizzata. E se gli anni Ottanta sono costellati, anche a Martina, di storie tragiche e dolorose relativamente conosciute, e dall’accanimento miserabile dei benpensanti, oggi il discorso si è fatto sommesso, discreto. Conforme ai tempi: cinico e opportunista.   

La Relazione annuale al Parlamento 2020 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, che elabora i dati dell’anno prima, segnala oltre un morto al giorno per overdose: 373. Si tratta dell’11% in più rispetto al 2018 (334), il 26% in più sul ‘17 (296). In 169 casi (il 45%) la causa è stata l’eroina, in 65 la cocaina (17,4%), in 115 (oltre il 30%) una sostanza imprecisata, dato indicativo della diffusione di nuove droghe sintetiche. Altro dato inquietante: l’incremento delle diagnosi tardive di Hiv, con il risultato che quasi un terzo si ammala di Aids ignorando d’essere sieropositivo ed è più facile trasmetterlo e più difficile curarlo. Inoltre, un mare di cocaina che affluisce perché aumenta la domanda.

Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict), parla di seicentosessantamila giovani, uno studente su quattro delle scuole, che dichiara di fare uso di sostanze stupefacenti, tendenza che potrebbe essere ancora più elevata. Perciò è importante parlare e argomentare con cognizione del problema droga senza partire da posizioni precostituite e ideologiche, ma sapendo che c’è una storia, in parte spaventosa ma soprattutto di riscatto umano e culturale, a cui attingere. Personalmente faccio mia una frase, del regista Carlo Mazzacurati (1956-2014), che ho scoperto sul profilo Facebook di Alessandra Miola, insegnante e attrice di Martina Franca: «Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre».

Nella foto: il logo di San Patrignano su un prodotto realizzato dalla comunità. 

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