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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Le nostre canzoni e i nostri dischi del 2020

di Mark Aymondi

04/01/2021 Musicando

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Le nostre canzoni e i nostri dischi del 2020

 

Queste sono le canzoni che preferiamo dell’anno appena trascorso (per ascoltarle, cliccare sui titoli).  

1) MURDER MOST FOUL

Bob Dylan 

L’assassinio di John Kennedy come innesco del big bang degli anni Sessanta. In diciassette minuti meno quattro secondi che sono, insieme, un requiem e una celebrazione. Il requiem è per una certa idea di America, il grande Paese democratico espressione di libertà che l’uccisione del presidente della nuova frontiera trasforma nel disastro morale nel Vietnam (la spiegazione, nel film JFK, è nel quarto d’ora dopo i primi novantanove minuti). La celebrazione è per quella grande musica popolare (afro)americana e inglese che, trascendendo condizionamenti di naturale sociale, culturale, razziale e religiosa, resta un grande tesoro di cui Dylan si rende custode. Poetico, intenso, epico, corale, maestoso.

 

     

2) I’M NEW HERE

Mackaya McCraven & Gil Scott Heron 

La canzone originale è di Bill Callahan. Nel disco del ritorno di Gil Scott Heron, che aveva lo stesso titolo, era proposta in una versione scarna che esaltava il suo spoken word. Quella reimmaginata da Mackaya Mc Craven in We’re new again, introdotta da suoni d’arpa in splendido contrasto con la ritmica echeggiante, è un emozionante accompagnamento musicale alla voce unica del grande poeta afro americano. I cori contribuiscono in maniera quasi commovente al lirismo dell’arrangiamento, rendendo potente ed evocativo il cantato sommesso, in parte sardonico, di Scott-Heron. Una riscrittura raffinata, rispettosa, che da lassù il vecchio Gil, immaginiamo, avrà considerato una conferma d’un lascito vitale e fecondo.

 

 

3) BALLATA DI UNA MADRE

Eugenio Bennato

La canzone, cantata dal suo autore, compare per la prima volta nel 2008 nell’album Grande Sud. Trasformata in un corale, è una delle sette composizioni dell’album Qualcuno sulla Terra. Ne rappresenta, per lirismo, forse il momento più alto perché riesce ad esprimere pienamente quel senso toccante di classicità contemporanea e universale, anche per valore morale, che permea l’opera. È cantata da Laura Cuomo, contralto, componente dell’ensemble Voci del Sud che accompagna Bennato in un tour nelle chiese. La bella e dolente melodia, con sentimento quasi religioso, trasmette speranza e senso di fratellanza, trasformando la musica in messaggio e in giusta causa.   

 

  

4) ON SUNSET

Paul Weller 

Sessantadue anni sono un’età in cui, anche, si riflette sul passato. Weller l’aveva fatto in maniera sublime in True meanings, il grande disco del 2018. On sunset, che intitola l’ultimo, pregevole album, è ancora emblematico della sua notevole capacità di sintesi stilistica, tra echi del George Harrison di My sweet Lord e del Burt Bacharach di Walk on by, ricostruendo la sensazione d’un amore giovanile adesso che «il mondo che conoscevo /è tutto finito». L’orchestrazione e le percussioni l’avvolgono di nostalgia preziosa ribadita da un video splendido di Martin Kovalenko con camei dei figli di Weller, Mac e Natt, insieme a un manifesto del padre John. Lui, Paul, guida fino al tramonto una Pontiac Firebird molto fine anni Sessanta.  

 

 

5) SUMMER GHOSTS

Ben Watt

La scintilla è venuta dal cantautore americano John Grant. «Mi ha parlato della tradizione estiva giapponese dei fantasmi che appaiono in agosto, non, come spesso immaginiamo qui, nel buio dell'inverno. Stavo scrivendo una canzone su quanto sia difficile scrollarsi di dosso il proprio passato, come le esperienze di anni fa possono ancora capovolgerti. L'inversione del titolo sembrava perfetta». Sentimentale, espressiva, coinvolgente, Summer ghosts viaggia in un crepuscolo sonoro dove il pianoforte s’inoltra in una ritmica trip hop scandita dalla voce resiliente di Watt. L’ultimo verso ricorda Hull, la città dove ha incontrato per la prima volta Tracey Thorn, sua moglie e altra metà degli Everything But The Girl.

 

 

6) BLUE

The Strange Flowers 

Dai demo registrati in solitudine a Boston alla fine degli anni Novanta, in gran parte già resi canzoni finite nei precedenti dischi, Michele Marinò cava questa meravigliosa e frenetica Blue. Gli Strange Flowers la trasformano in una trascinante filastrocca psichedelica, ideale sottofondo sognante di corse primaverili in motocicletta in fondo al sole. La canzone fila, incalzante e nostalgica, giocando su semplici e comuni desideri insoddisfatti, fino al rimpianto per una persona che non si riesce ad avere quando ci si sente tristi. Acquista ulteriore significato e valore grazie al video realizzato dal bassista Alessandro Pardini con protagonista sua figlia Federica, colta nell’atto simbolico di svelare e tornare a nascondere un volto bendato.  

  

 

7) SEPARATE WAYS

Neil Young 

Inizia lenta, meditabonda, con la batteria di Levon Helm (1940-2012) che scandisce il tempo e la classica chitarra slide di Ben Keith (1937-2010) che delinea lo spazio. Poi Neil Young inizia a cantare versi che non lasciano dubbi sul senso di rottura della relazione con l’attrice Carrie Snodgress. L’incipit appena stonato, restato opportunamente, è lo start del registratore schiacciato da Tim Mulligan simultaneamente all’avvio della session. Separate ways ricorda Out on the weekend, inizio del mitico album Harvest, ma è più cupa, coerente allo spirito del disco. Eseguita dal vivo, in versioni molto diverse da questo originale, nel 1993 e nel 2014, era una perla inudita della discografia di NY. Sarebbe stato un peccato lasciarla dov'era.       

 

 

8) REMEMBER WHERE YOU ARE

Jessie Ware

What’s your pleasure? è un album piacevolmente ballabile con la sua sequenza immaginifica di dodici canzoni emozionanti, giocose e ricercate che s’inseguono nel gioco a incastro dei rimandi dance. Questa è la composizione conclusiva. E Jessie Ware, con il suo talento espressivo, riesce a emozionare come grandi gruppi del genere, Chic e Sister Sledge ad esempio, riuscivano a fare ricorrendo all’intreccio di più voci. È una composizione caleidoscopica che suscita un’emozione collettiva, come nella migliore tradizione estatica del suono da discoteca, risultando nello stesso tempo attuale e nostalgica con i suoi bagliori soul, psichedelici e acid jazz. Un’artista ormai matura e in stato di grazia.     

 

 

9) YES, I HAVE GHOSTS

David Gilmour with Romany Gilmour 

A theatre for dreamers è un romanzo di Polly Samson, signora Gilmour. Il marito David, per l’audiolibro, ha reso disponibile questa canzone suonata insieme alla giovanissima figlia Romany, all’arpa e ai controcanti. Ambientato nell’isola greca di Hydra nel 1960, il libro della Samson narra la vita libera d’una comunità di poeti, pittori e musicisti, compreso il venticinquenne Leonard Cohen. E la canzone ricorda le sonorità del grande cantautore canadese. Arriva a cinque anni dal mezzo passo falso dell’album Rattle that lock. Fa pensare, ma con senile sentimento, a certe serene ispirazioni del bel disco solista del 2006, On an island. Non tutto il lockdown viene per nuocere: la collaborazione con Romany ne è una eccellente conseguenza.

 

 

10) DEEP DEEP FEELING

Paul McCartney 

Un effetto del lockdown è anche McCartney III, l’interessante, gradevole ma non eccezionale nuovo disco solista e domestico di Macca registrato nella sua fattoria facendo quasi tutto da solo. Tra le composizioni risalta la lunga ed eccentrica Deep deep feeling con coretti, falsetti, profondità orchestrali e chitarristiche, pianoforte psichedelico. «Proveniva da una sorta di jam che avevo fatto. Volevo entrare in uno stato d'animo particolare, una sorta di atmosfera spaziale vuota, quindi ho inventato cose in modo che fosse solo una combinazione d’idee diventata una canzone di otto minuti» ha scritto l’autore su Twitter. Secondo il Guardian, potrebbe essere la sua migliore degli ultimi dieci anni.     

 

Questi, invece, sono gli album (per ascoltarli, cliccare sui titoli). 

 

 

1) ROUGH AND ROWDY WAYS

Bob Dylan

Il metro di paragone resta la trilogia tra il 1964 e il 1966 di Bringing it all back home, Highway 61 revisited, Blonde on blonde. Questo nuovo album, oltre mezzo secolo dopo, conferma e semmai proietta nell’età anziana il talento fantastico di Dylan, capace di rileggere la storia e trasformarla in esperienza viva, sia individuale che comunitaria, attraverso un caleidoscopio di riferimenti, citazioni, dejà vu. Nella migliore tradizione del blues, tra atmosfere scarne, sobrie e rarefatte che accompagnano una voce a seconda dei casi placida, sardonica, solenne, scherzosa, salmodiante, Dylan si reinventa e rilegge il mondo a immagine delle sue visioni. Ben sapendo, da uomo di contraddizioni, che nessuna realtà può contenerlo fino in fondo.

 

 

2) WE’RE NEW AGAIN   

Mackaya McCraven & Gil Scott Heron 

Gil Scott-Heron è una personalità cruciale dell’ultimo mezzo secolo di cultura (afro)americana. Nel 2010, un anno prima di morire, ritorna con un disco chiamato I’m new here. Dieci anni dopo il discografico Richard Russell chiede al geniale batterista Makaya McCraven di reimmaginare quel disco. Il gioco di specchi che ne scaturisce rinnova la profondità narrativa di Scott-Heron riportandola, con freschezza insospettabile, al centro della scena jazz e blues. È una rilettura originale, emozionante, attenta a un flusso di coscienza non negoziabile. Una riscrittura musicale evocativa dove McCraven, come un tempo Brian Jackson, pone la sua arte al servizio d’un immaginario che è anche espressione d’una cultura collettiva.

 

 

3) IN ORIGINE: THE FIELD OF REPENTANCE   

SaffronKeira with Paolo Fresu

SaffronKeira è il sound researcher sardo Eugenio Caria. Insieme al corregionale Paolo Fresu, raffinato e blasonato trombettista, realizza un disco di frontiera sull’origine oscura dell’uomo nell’universo ben rappresentato dalla Pietà in latex della copertina tetra. L’opera si sviluppa attraverso dieci composizioni dove i landscapes sonori s’intrecciano in maniera imprevedibile, sia insistente che rarefatta, con i fraseggi di tromba, epici, che delineano orizzonti in chiaroscuro. L’elettronica, umanizzante e mai intrusiva, fa viaggiare in un percorso di evoluzione sonora in cui gli echi di tromba producono una contaminazione irrequieta a tratti incantevole. Il punto d’arrivo è un altrove misterioso e metafisico, superamento d’ogni antinomia.        

 

 

4) STORM DAMAGE

Ben Watt 

Nella giovinezza di Ben Watt c’è il primo album, North Marine drive, 1983, che è un gioiello di cantautorato. Poi il successo con il duo Everything But The Girl insieme alla moglie Tracey Thorn. Storm damage, per certe atmosfere malinconiche e sublimi, è il disco che più si avvicina a quell’esordio leggendario. Il folk-jazz screziato di elettronica, il lirismo chiaroscurale e notturno, le melodie resilienti e ispirate, delineano un universo emotivo che rincorre la luce dopo i dolori e i lutti che hanno fiaccato il fisico e lo spirito. Watt conferma d’essere un grande autore di canzoni pop in almeno otto su dieci. Coerente, autobiografico, riflessivo, sofferto, il suo quarto disco solista celebra la vita che può anche essere bella, ma non giusta.        

 

 

5) RESONANCE & RHAPSODIES

Roberto Ottaviano Extended Love & Eternal Love

Due album, uno in ottetto (Extended Love) e l’altro in quintetto (Eternal Love), e sette composizioni per complessivi cento minuti di musica, rappresentano per il sassofonista barese Roberto Ottaviano la ricerca d’un senso e l’espressione d’una passione. È la celebrazione e insieme il superamento del progetto Eternal Love che aveva intitolato il suo precedente album pubblicato, come questo doppio, per l’etichetta salentina Dodici Lune. Ottaviano e i suoi recuperano l’eredità creativa del miglior jazz della seconda metà del Novecento e la rielaborano con vigore eclettico ed evocativo. Lo spirito immaginifico di Keith Tippett, a cui il lavoro è dedicato, si staglia in sottofondo.

 

 

6) WE ARE SENT HERE BY HISTORY   

Shabaka & The Ancestors 

Il trentacinquenne sassofonista Shabaka Hutchings, uno dei protagonisti della celebrata scena jazz londinese, realizza in Sud Africa un disco del presente che richiama il passato e guarda al futuro. Il senso è politico: «È una meditazione sulla prossima estinzione della nostra specie come dato di fatto: è una riflessione dalle rovine fumanti, un interrogarsi sui passi da seguire in vista del nostro trapasso (individuale, come della società nel suo insieme), e sul fatto che la fine possa o meno essere vista solo come una tragica sconfitta». È la musica? Magmatica, caotica, trascendentale, invita a seguire la storia come strada della comunità verso la salvezza d’un mondo rinnovato.  

 

  

7) ON THE TENDER SPOT OF EVERY CALLOUSED MOMENT

Ambrose Akinmunsire 

Il pianoforte di Sam Harris, il contrabbasso di Harish Raghavan, la batteria di Justin Brown e la tromba del leader in un disco acclamato più o meno ovunque per una idea di jazz capace di assorbire, rielaborare, fissare e riproporre sonorità proprie del genere e anche oltre. Il quinto album in studio di Akinmusire, un disco blues per il suo autore, cristallizza emozioni immediate, dense, trasponendole in un linguaggio musicale imprevedibile, intenso, originale. A sonorità forti, radicali, ricche di senso creativo, seguono momenti di lirismo anche impegnato, come nel finale dedicato alle vittime nere della violenza poliziesca nelle metropoli statunitensi. Quarantotto minuti appassionati e aperti: al futuro e alla speranza.          

 

 

8) HOMEGROWN   

Neil Young 

Era considerato uno dei più importanti dischi perduti di NY. Registrato tra il 1974 e il ’75 dopo On the beach e prima di Zuma, doveva essere il suo sesto solista. È rimasto inedito fino a oggi perché gli fu preferito Tonight’s the night, registrato due anni prima. Troppo personale perché parla della fine d’un amore, quello con l’attrice Carrie Snodgress, madre del suo primogenito Zeke: questa fu la giustificazione dell’autore. Diverse canzoni sono poi state pubblicate. Non ci sono capolavori tra i dischi solisti di NY ma più della metà dei suoi quarantatré, e questo è finora l’ultimo, sono belli, bellissimi o grandi. Questo è un bel disco e valeva la pena riascoltarlo. Non per collezionismo, ma per il valore delle canzoni e della loro ispirazione.    

 

 

9) SONGS FOR IMAGINARY MOVIES   

The Strange Flowers 

L’ottavo album degli SF non tradisce le attese dopo l’attenzione suscitata, tre anni fa, dal doppio cd antologico dal titolo programmatico Best things are yet to come. Tornati alla formazione iniziale, quella dei primi due demo alla fine degli anni Ottanta, tranne il batterista Valerio Bartolini che ha una ventina d’anni meno di Michele Marinò, Giovanni Bruno e Alessandro Pardini, il quartetto pisano non perde un colpo nonostante abbia finora raccolto meno di quello che meriti. In realtà, considerato il lockdown e lo stato dell’industria musicale, quest’ultimo album può essere ritenuto un successo. Il valore delle canzoni lo avvicina ai due dischi migliori: Ortoflorovivaistica, 2005, e Pearls at swine, 2015. Mai come ora, per gli Strani Fiori, vale la pena insistere.       

 

 

10) ANDIAMO IN GIRO DI NOTTE E CI CONSUMIAMO NEL FUOCO   

Homunculus Res

È una storia particolare quella del gruppo palermitano. Giunti al quarto album, confermano la loro originalità e il loro valore creativo che consiste nel recupero non derivativo di stilemi musicali del sound di Canterbury per riattualizzarli con sensibilità propria. Non viene sacrificata quella componente fantastica che certe sonorità, proprie d’un gruppo immaginifico come gli Hatfeld & The North, rendono tanto suggestiva quanto necessaria. L’immaginario risulta arricchito anche da certa tradizione musicale propriamente italiana, oltre che sollecitato dai testi ora ironici, ora allusivi, intorno ai quali costruire una critica sociale al consumismo. Il risultato è una musica tanto curiosa quanto espressiva. Soprattutto, bella da ascoltare.   

 

 

 

 

 

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